Rocco Chinnici


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Dipinto dell'esimia Artista Mary Jane Q Cross

Racconti di Rocco Chinnici
C’E’ SEMPRE DA IMPARARE 


Quando si è convinti che della vita si è compreso tutto, ci si rende conto di non avere appreso proprio niente.



Un giorno di tanto tempo fa, un signore che stava recandosi in macchina nei pressi di Ficuzza, alla vista di un vecchietto curvo sul vecchio paniere, intento a raccogliere funghi, si fermò e gli si avvicinò:

«Buon giorno, nonnino!» disse. «Come va, come va la ricerca micologica?».

«Buon giorno a vossignoria! Ma... che ha detto, che ha detto?».

«Oh, niente!» rispose quel signore al vecchietto che conosceva solo campi e boschi.

E finì che, camminandogli accanto, mise in mostra il suo sapere:

«Lo sapete,» disse al buon vecchietto «a che altezza siamo sopra il livello del mare?».

«Non lo so proprio!».

«Lo sapete quant’acqua pompano a Palermo i motori del lago di Piana degli Albanesi?».
«Vossignoria chiede certe cose!...».
Quello continuava a tempestare di domande il vecchietto, che, meravigliato e nello stesso tempo mortificato, inghiottiva, una dopo l’altra, le tante risposte sconosciute. Tra una domanda e una risposta, finì che ognuno riempì il proprio contenitore di funghi.
«Sapete,» continuò il sapientone con cattedratica oratoria «io ho studiato a..., io sono stato a..., io ho visitato il...; e la distanza, la distanza che c’è fra Marte e Nettuno, la sapete? E la velocità della luce?».
Il vecchietto ascoltava stupito.
Ritornati sulla strada dove si trovava la lussuosa macchina, si salutarono:
«Arrivederci! Io sono il professor Raveri, docente universitario della cattedra di Ingegneria nucleare di Palermo».
Il vecchietto, sconfortato per non aver saputo dare una risposta, e imbarazzato davanti a tutti quei titoli, divenne più piccolo di quant’era, e sussurrò leggermente:
«Io sono solo Carminu di Belmonte Mezzagno, a servirla!».
E si congedarono. Il vecchietto, arrivato a casa, raccontò tutto quanto alla moglie Concettina, seduta a filar la lana, accanto al braciere acceso:
«Concettina, dovevi sentirlo! Che persona istruita! Non c’era cosa che non sapeva: il mare, le stelle, mi disse pure dell’acqua del lago di Piana degli Albanesi!…».
«E... dimmi una cosa, ma… due funghi, glieli hai dati?».
«Quando mai! Fui così preso da tutto quel sapere, dalle novità che mi raccontava, che l’ho dimenticato; ma, se non sbaglio, anch’egli riempì il sacchetto».
«E di che funghi, di che funghi?».
«A dire il vero… sentivo che parlava, parlava, ma che qualità raccoglieva non ci ho fatto caso; domani gli telefono, sai, mi ha dato anche l’indirizzo».
L’indomani il primo pensiero fu quello di telefonare:
«Pronto! Pronto? Parlo con la famiglia Raveri? Cercavo il dottore… non c’è?... Ah! È morto?... E come?... Per i funghi?».
Posò il telefono e cascò sulla sedia, borbottando:
«Minchione! Concettina, è morto!».
«Morto… chi, il dottore? E come?».
«Per i funghi!».
«Per i funghi?» fece Concettina, meravigliata. «E tu glieli hai controllati se erano buoni, o no?».
«Come facevo, Concettina? Di quante cose sapeva, andavo a pensare che non conosceva proprio i funghi?».

Tintu chidd’omu ca mori pi li funci,
pirchì a stu munnu ’un c’e cristu ca lu chianci. 
GESTO D'AMORE 
La neve scendeva fitta quel giorno, e il grigiore di quella giornata uggiosa, rendeva l’animo triste; solo i comignoli gridavano a festa con le loro scoppiettante scintille. Da dietro i vetri appannati si intravedevano le luci colorate di piccoli alberelli parati a festa, e qualche volto guardare fuori quella neve che sembrava danzare. In strada un bimbo, con le sue scarpette rotte e i piedini inzuppati, tendeva la mano ai passanti premurosi a guardar le vetrine adornate, in quell’aria di festa, incuranti del bimbo mendicante. 
Da piccolo, ricordo mio nonno quando, adagiato sulle sue braccia, mi diceva di un vecchio proverbio: “ Tutte le feste falle con chi vuoi; Pasqua e Natale falle con i tuoi “; sicuramente egli aveva ragione a dir questo, perché…, aldilà che siano feste comandate come tanti usano definirle, sono giorni che ricordano il risorgere di Cristo, il sorgere di speranze perdute; la natività del nostro Signore, che invita tutti a far nascere nei propri cuori grandi amori…; ed egli è li, con i suoi appena dieci anni e la manina intirizzita dal freddo, a mendicare; fu li che prese vita quel ricordo del nonno “Tutte le feste falle con chi vuoi…” Ma egli, questo piccolo, ha mai conosciuto feste? Chi saranno questi suoi con i quali avrebbe dovuto passarle? 
La neve continuava a scendere lenta finendo d’imbiancare persino le strade; alcuni bimbi gioiosi, imbacuccati, cominciano a far piccole palle di neve. Da dietro i vetri di una vecchia casa mezza diroccata, una bimba osserva l’accaduto, e, intristita per quel piccolo mendicante, pur non avendo, sotto l’albero al buio, alcun regalo, corre a portargli il dono più bello: l’amore, ma egli, il piccolo non c’è più, è andato via; in fondo la strada intravede il bimbo fra la gente e gli corre dietro. Alla piccola il cuore sembra scoppiare, e li, lo vede, ancora per poco, 
<< Fermati!>> 
Gli grida con quel po’ di fiato rimastole. 
<< Aspetta!>> 
Affannata riparte, mentre l’esile figura gira l’angolo. << Eccomi, son qui!>> 
Ma, appena girato l’angolo non vede nessuno, solo una lunghissima distesa di neve. - Era qui! 
Non c’è nulla dov’egli avrebbe potuto nascondersi. - << E’ strano! >> fece, continuando. <<L’ho visto, come può essere scomparso? E le orme? >> Nemmeno le orme più si vedevano, solo una piccola stellina colorata posata sulla soffice neve, che prese con la piccola mano intirizzita dal freddo, come quella del bimbo mendicante ora sparito nel nulla, la strinse a se portandola vicino al cuore e fu presa di grande calura. 
CICCIO E LE PICCOLE MANTE
Era da poco spuntata l’alba, e la scogliera quel giorno sembrava posta in modo diverso, forse a causa della marea; si dice che la luna e il sole influiscano con la loro attrazione a determinarla: bassa, o alta che sia.
Mi chiesi se durante la notte appena trascorsa la luna non avesse avuto proprio la “luna per traverso”, o che col sole... Il mare, sembrava che non l’avessero proprio disturbato; certo! Avrà litigato col sole! E il mare... sì, era il mare che rendeva diversa la scogliera.
Avrei voluto chiedere a Ciccio, vecchio gabbiano color cenerognolo, sempre addossato alla cima del grande scoglio, perché tanto strano appariva quel luogo dove egli, incurante dei nebulosi pensieri, adagiato, guardava il mio rituale scendere mattiniero. Ciccio sapeva che stavo recandomi a pesca, lo sapeva ed era contento ogni qualvolta apparivo di buon mattino dall’alto della spiaggia con i remi in spalla e la cesta col palamito , muoveva le ali come a voler battere le mani e subito mi era dietro la barchetta volando quasi a sfiorarla. Sapeva che ogni tanto, mentre innescavo gli ami mandandoli a fondo, gli lanciavo una delle sardine pescate il giorno avanti, e che avrebbero dovuto essere esca del piccolo... si fa per dire, palamito (quattrocento ami).
Mi era compagno di pesca il vecchio Ciccio, non riuscii mai a capire se egli lo facesse per darmi compagnia o perché sapesse di guadagnarsi dei prelibati bocconcini; io, se devo essere sincero, mi sentivo più sicuro nel vedermelo accanto. Il mare è un mondo meraviglioso e non si può non amarlo, bisogna che tutti lo conoscano per apprezzarne di più le sue bellezze naturali e persino i suoi malumori; e, a proposito di malumori, ricordo quanto dettomi da un vecchio lupo di mare intento a rammendar le reti sulla spiaggia, mentre il mare in bonaccia invitava i bagnanti a ristorarsi dalla calura estiva. Era terso quel giorno il cielo, ricordo, e non v’era nessun alito di vento. D’un colpo egli, senza che ve ne fosse la ragione, guardò in aria col suo sguardo profondo che sembrava penetrare i perché della vita, e con un sereno sorriso mi disse che da lì a poco il mare avrebbe fatto un rigurgito. Io non feci in tempo a capire quanto voleva dirmi che subito scese il vento; il mare cominciò ad incresparsi da far paura.
Io lo guardai meravigliato preoccupandomi per chi, inesperto, aveva da poco preso il largo con qualche piccola imbarcazione.
«Non preoccuparti» continuò, con quel suo viso scarno e sereno. È solo un rigurgito. Quanto più dura la bonaccia, tanto più sente, il mare, di fare questo rigurgito: è come quando ci troviamo a fare delle lunghe mangiate,» cercava di spiegarmi, mentre io guardavo stupito il suo volto, pregiata opera di quel grande scultore ch’è il tempo «e poi... sazi, emettiamo un piccolo rutto». 
Un grosso strattone mi distolse da quel dolce pensare: che fare, continuare a mandare a fondo gli ami o tirare per vedere cosa aveva abboccato di grosso? A finire mancavano solo una trentina d’ami; decisi così di continuare a mandare giù il palamito, e subito ricominciare a tirar su dal primo amo.
Quel giorno sembrava voler promettere bene, cominciai a prendere dei bei pesci; ogni tanto n’affiorava qualcuno monco, mangiucchiato da qualche calamaro o pesce più grosso, e Ciccio, della disgrazia, sembrava godere molto: sapeva che il rimasto di quel pesce glielo avrai buttato in pasto, era già diventato un tacito accordo.
Avevo già fatto una bella pesca: orate, qualche merluzzo, spigole... ma di quello strattone ancora non se ne sapeva nulla; che forse s’era “sboccato”? Ecco che lo risentii! Ci siamo, mi dissi. Avvicinai il retino per evitare che il pesce a fior d’acqua potesse sfuggire, e continuai a tirare su gli ami cercando di “dare” lenza quando il pesce si ostinava a salire, mentre io guardavo in fondo cercando di capire cos’era che tirasse tanto.
Il sole cominciava a farsi “sentire”; Ciccio era intento a finire il lauto pasto, quand’ecco che dal fondo cominciò, tra uno strattone e l’altro, ad intravedersi qualcosa. Mi accorsi così di aver preso un grosso pesce rondinella: avrà pesato sicuramente cinque chili, ecco il perché dei grossi strattoni. I colori meravigliosi delle sue ali aperte mi affascinavano tantissimo. Feci una gran fatica a farlo entrare nel grosso retino, e quando lo adagiai dentro, sul fondo della barca, rimasi incantato ad osservarlo. Continuai a tirare su gli ami rendendomi conto che non era quello il punto in cui avevo sentito il robusto strattone; in quel punto rimanevano appena trenta ami da mandare a fondo, mentre da tirare ce n’erano ancora quasi cento. Ripresi, con la speranza che il grosso pesce non si fosse sboccato, tolsi dall’amo un altro mezzo pesce che buttai a Ciccio, il quale dall’alto osservava senza che gli sfuggisse niente.
Gli ami venivano su senza esca e con una leggerezza strana, era come se il letto del palamito lo avessi steso a galla anziché mandarlo a fondo; ma... è «a galla!» urlai, tanto che Ciccio dall’alto mi guardò meravigliato. Gli ami non venivano su, galleggiavano tutti; che si fosse rotto il filo legato alla zavorra che fa scendere il palamito a fondo? Guardai avanti e vidi che galleggiava qualcosa di massiccio; cosa poteva essere, se non dava nessun segnale? Lentamente raccoglievo gli ami, e mi avvicinavo sempre più a quello che non riuscivo a capire che pesce fosse; luccicava nel sole settembrino da sembrare... sì, era proprio lei, una manta! Una grossa manta. Non sapevo che fare, se tirarla in barca o cercare di farla andare; e come, se non prima avessi tolto l’amo? Non potevo tagliare il bracciolo; le sarebbe rimasto attaccato in bocca l’amo. Pensai di tirarla su, cercando di non farmi prendere dal pungiglione che aveva in punta, sulla coda.
A stento, aiutandomi anche con i remi, riuscii a metterla in barca: tanto era grossa che prendeva quasi un quarto di barca; subito le cominciò ad uscire acqua dalla parte bassa, acqua e sangue... sangue? Non è che... vidi venir fuori, da sotto il gran peso, delle piccolissime mante, ognuna grande quanto l’apertura di una mano; cinque in tutto, cinque piccole mante che, a guardarle, vorrei che il tempo si fermasse, per come ferme ed impresse sono rimaste nella mia mente quelle immagini che non mi lasceranno più. 
Mi feci animo, presi la grossa manta e la rimisi in acqua; pian piano le misi accanto uno a uno i piccoli che subito nuotarono, portandosi sotto la loro mamma, come i pulcini alle loro chiocce. Mi guardava, ed io non capivo se era un saluto o un volermi dire “grazie”; era strano il fatto che rimanesse così tanto immobile.
Ripresi a remare lentamente per finire di raccogliere il resto del palamito, quando vidi che lei mi seguiva con quei soavi movimenti, mentre sotto, i piccoli, adombrati, seguivano lenti la madre che continuava a fissarmi; non riuscivo a capire il senso del suo strano atteggiamento. Mi abbassai per prendere un amo che s’era conficcato nella cassetta, dove tenevo il pescato, e con stupore vidi dietro la cassetta una piccola manta, la sesta, di cui non mi ero accorto prima.
La presi e la adagiai sul mare; la grossa manta aspettò che il piccolo le andasse sotto come gli altri, e lentamente s’inabissarono nel loro meraviglioso mondo.
Non capii il perché dello strano episodio avvenuto in barca; forse la paura aveva sollecitato in lei il parto, o... chissà. Una cosa è certa, che quanto successo è stato per me un sogno, un sogno ad occhi aperti che non dimenticherò mai. Tirai il palamito e remai, con Ciccio che ripeteva il suo verso, chissà, forse un saluto, l’ultimo, alla felice famigliola marina che come me faceva ritorno a casa.



                                


MELO E IL PESCE SPADA
Il caldo afoso di quella mattina d’agosto dava ad intendere che il giorno non avrebbe risparmiato nemmeno chi se ne stava all’ombra, rincantucciato sotto una delle tante barche arenate sulla grande spiaggia di quel piccolo paese che contava poche centinaia di anime: Tonnarella.
Un paesino in cui, anni or sono, oltre alla pesca, veniva praticata la raccolta del gelsomino. Ancora prima che spuntasse l’alba, le donne con i loro canti contadini passavano con grosse ceste adagiate sul capo, colme di quel delizioso fiore il cui profumo entrava dalle finestre delle piccole case, inebriando chi, nel dormiveglia, assaporava l’ultimo sonno della notte.
All’ombra del Santa Lucia, un vecchio peschereccio ancora tutt’altro che in disarmo, Melo ricuciva le reti sfaldate la notte prima da qualche grosso delfino rimastovi intrappolato durante la pesca alle alici. Il caldo sembrava non infastidirlo proprio; il suo corpo asciutto e stagionato, dal nero colore della pelle, pareva appartenesse alla famiglia Mustafà, una piccola tribù di neri da anni trasferitasi nel piccolo paese a lavorare nei vivai dei dintorni.
I giovani lo chiamavano: “Melo il Marocchino”; ma a lui sembrava non importasse proprio di quel nomignolo. Rammendava, con la pazienza che solo i vecchi lupi di mare hanno, quelle reti che di danni ne avevano subiti tanti. Rammendava e raccontava, ai piccoli che si riparavano all’ombra di quella grossa barca, momenti di vita vissuta al largo, nel mare aperto. Essi lo ascoltavano in silenzio, infastiditi solo da qualche moscerino, di quelli che ancora oggi popolano le spiagge.
«Zio Melo, raccontaci di quando eri piccolo e volevi prendere il pescespada con la lenza» fece uno dei più piccoli che lo ascoltavano incantati.
Quella storia era ormai divenuta leggendaria.
Di anni, Melo ne aveva già tanti, anche se nessuno sapeva di preciso quanti. I più sostenevano che già da tempo aveva passato gli ottantacinque.
Melo Aprile. Aprile, si diceva, perché il bisnonno fu trovato in fasce in quella spiaggia nel mese di aprile.
Raccontava, ritornando indietro nel tempo, e gli si leggeva negli occhi infossati ora il dolore, ora la gioia dei momenti vissuti; spesso riemergeva nel viso raggrinzato un sereno sorriso:
 «Ero piccolo,» cominciò «appena dodici anni, e già aiutavo la famiglia; quel giorno mi trovavo sulla barca, intento a far scendere in acqua il palancaro…».
Qualcuno dei piccoli non capiva.
«È un lunghissimo filo di nylon» spiegava loro. «Un filo con tantissimi braccioli lunghi un metro e distanti due metri e mezzo. Trecento braccioli e in ognuno un amo. Un filo lungo ottocento metri circa. Ad ogni amo andavo innescando un pezzettino di sarda, era quella l’esca di quel giorno; altre volte innescavo delle acciughe o piccoli pezzettini di calamaro.
Quella mattina, mentre remavo e andavo abbassando in acqua il filo, vidi passare sotto la barca un piccolo pescespada. Era bellissimo, mi si accapponava la pelle al pensiero di vedermelo abboccare da un momento all’altro a uno di quegli ami, tanto era piccolo, mi dicevo; non avevo ben chiare ancora le proporzioni di quel pesce che continuava a giocherellare attorno agli ami che lentamente scendevano a fondo.
Finii di mandare giù l’ultimo amo e il pescespada scomparve con esso. Dovevo aspettare almeno un paio d’ore prima di iniziare a tirare il filo sulla barca. Decisi di tornare un po’ a terra, mentre… ecco che rivedo il pesce sotto la barca, mi sembrava di vederlo più grosso stavolta. “Forse era più in superficie?” Mi chiedevo.
Cercavo di capire come poterlo catturare. Avevo sulla barca un grossissimo amo mezzo arrugginito, residuo di qualche vecchia pesca a tonni da parte di mio padre, e una cordicella di nylon di circa dieci metri. Vi legai l’amo a doppio nodo e attaccai la cordicella a poppa; presi una delle sarde rimastami, la innescai per intero a quell’amo e lo buttai a mare. Il pesce sembrò essere disturbato da quei continui saliscendi che facevo con la cordicella, e finì che non lo vidi più; aspettai ancora, pensando di vedermelo riapparire dietro l’amo innescato, ma niente.
Ripresi a remare verso riva, lasciando in acqua l’amo con tutta la sarda e la cordicella legata sempre a poppa. Avevo dato poche palate, quando sentii un grosso strattone e la barca traballare come se avesse urtato in uno scoglio; non ebbi nemmeno il tempo di pensare che lì, in quel posto, c’era solo sabbia, che la barca cominciò a muoversi all’indietro.
Subito capii quello che stava accadendo: “Come poteva” mi domandavo “un piccolo pescespada far muovere quella, anche se pur piccola, barca?”».
Zio Melo smise di rammendar la rete, fissò il vuoto e si zittì; gli si leggeva nel volto la paura di allora.
«Dai, zio Melo!» spronavano i bambini. «E dopo com’è finita? Perché non continuavi a remare verso terra?».
«E come?» intervenivano gli altri rimasti imbambolati.
«Ripresi a remare,» continuò zio Melo «ma non riuscivo a guadagnare nemmeno un metro. D’un tratto, la barca cominciò a prendere il largo; i remi, uno mi era caduto in acqua e l’altro dovetti tirarlo in barca. Era come se fossi spinto da un fortissimo vento di scirocco. Cominciai a gridare aiuto, mentre cercavo disperatamente di sciogliere la cordicella che si era aggrovigliata con un piccolo arpione posato a poppa. Nessuno in spiaggia sembrava capire niente di quanto stesse accadendomi.
La barca continuava sempre più la sua corsa verso il mare aperto. Non avevo nemmeno come tagliare quella cordicella che continuavo a battere con la sassola, unico attrezzo di cui potevo disporre; niente, la cordicella era spessa quanto l’indice della mia mano, e, se pur avevo dodici anni, capite bene quanto avrei potuto tirare.
Cominciai a piangere, qualche lacrima mi inumidiva la bocca secca, secca, sicuramente a causa della gran paura perché non sapevo che fare; mentre, al largo, il mare cominciava ad incresparsi sempre più.
Tante volte guardai lassù verso Tindari, implorando la Madonna perché venisse in mio aiuto… Avevo appena tre anni quando mio padre mi aveva condotto al santuario. Eravamo partiti all’alba del giorno 6 del mese di settembre, festa della Madonna, si dovevano percorrere circa 15 km, ed eravamo tutti a piedi scalzi, era così che si andava al santuario, e mia madre, ricordo che si dovette fermare per togliersi dal piede una grossa spina di rovo: quel rovo che, ancora oggi, cresce lungo il viottolo che porta su al monte. A nulla valsero le mie implorazioni.
Il vento di scirocco iniziava a soffiare, volevo buttarmi a mare e tenermi aggrappato al remo, unica speranza rimastami, ma la paura di essere attaccato da quel grosso pesce era più forte. Sentii un rumore di motore, non capivo da che parte arrivava; la barca sembrò che perdesse la sua corsa.
“Sono salvo!” gridai. Il pesce doveva essersi sboccato. Il mare continuava ad incresparsi sempre più, e le raffiche di vento cominciavano a spingermi acqua addosso; ero inzuppato come un pulcino, non riuscivo a prendere alcuna iniziativa. Il rumore di un motopeschereccio era già vicino, tanto che sentii una voce chiamare: “Melo!”.
Era il mio nome! Mai quel nome m’era apparso così bello. Mi girai e vidi mio padre con una ciurma di marinai sul Santa Lucia».
«Questo motopeschereccio?» fecero in coro i ragazzi.
«Sì, proprio questo.
La barca riprese a muoversi, il pesce era ancora lì, e la paura che sembrava avermi abbandonato, mi riprese forte. Gridai loro quanto stesse accadendo e mi dissero di stare fermo, mi assicurarono che a momenti si sarebbe risolto tutto.
In men che non si dica, circondarono la barca nella quale mi trovavo con una larga rete e mi lanciarono un grosso coltello perché tagliassi la cordicella; subito eseguii, ed uscii da quella rete, aiutato dall’unico remo rimastomi. Mentre i pescatori tiravano su la rete, mio padre mi aiutò a salire sul motopeschereccio e mi abbracciò forte forte. Legammo la barca al Santa Lucia ed aiutammo gli altri a tirare la rete.
Fu una meraviglia generale, quando tirammo in barca quel grosso pesce che si dibatteva furiosamente; aveva ancora l’amo attaccato e la cordicella che gli pendeva dalla grandissima bocca. Qualcuno diceva che avrebbe pesato più di un quintale, e, a sentir loro, c’era da crederci.
Rientrammo cantando in coro Vitti ’na crozza.
Solo mio padre non cantava, aveva tra le labbra un gelsomino, ne teneva sempre qualcuno in tasca, glielo dava mia madre quando rientrava dai campi.
Guardò verso Tindari e mi abbracciò commosso».

LA TROTTOLA NUOVA

Un coro: <<eh... oplà!>> Al primo colpo la piccola trottola si aprì in due; il ragazzo, prima orgoglioso, ora si ritirava triste in disparte mentre gli altri ridevano. Guardava con la coda dell’occhio, quello che era rimasto della sua nuova trottola, gli era costata settanta lire, frutto della fatica di quei cinque lunghissimi viaggi al pozzo per riempir la brocca. Il sole sembrava divertirsi a far capolino fra monte Mezza Luna e la Chiesa Madre; mentre una voce di bimbo che gioca a catinelle, grida ai compagni: <<Tutti i mè sunnu!>>
La scalinata in cemento, dagli ampi terrazzi, che sale verso la Chiesa, con le sue righe in lungo e in largo a forma di quadrati, è il richiamo ai giochi dei giovani di allora. Chi non ricorda...: “Il testa e scrittu”, “I ciampeddi”, “I buttuna”, le famose “patacche”; qualcuno ricorderà ancora che, per riuscire a recuperare bottoni e poter giocare (si staccavano anche ad indumenti nuovi), prese tante di quelle legnate da ricordarsele per tutta la vita. Alcuni, anziché giocare, preferivano stare seduti sulle famose “jittène” a raccontarsi i “Cunta”, vivendo con la dolce fantasia semplice di allora, la storia di quelle favole, riuscendo a penetrare in quelle avventure, in quei posti misteriosi: ora il castello di un principe, ora davanti al drago dalle sette teste, (qualcuno, nel raccontarne la storia e per creare più suspense, aggiungeva qualche testa in più al drago.)
La piazza era il punto di ritrovo dei ragazzi del paese, era il posto dove si svolgevano tutte le attività motorie e creative. Quel pomeriggio, mentre erano in corso le attività giornaliere, un gruppo di giovani si apprestava ad iniziare il gioco della “strummula” (trottola di legno), si avvicinò ad essi un ragazzo con una di queste trottole in mano, comperata da poco in una bottega li vicino; era quasi orgoglioso di quella sua nuova trottola, la guardava e la riguardava! Chiese allora se poteva partecipare giocare al gioco “Ri pizzati”, gli fu acconsentito, e mentre giocava a far scendere lungo la piazza (allora non asfaltata) la trottola, raccontava ad alcuni quello aveva fatto per ottenere i soldi della trottola:
-Cincu viaggia r’acqua ca quartàra, du puzzu finu a casa fici!- disse il ragazzo.
La casa era distante dal pozzo, quindi cinque lunghissimi viaggi. Raccontava tutto con gioia, incurante della fine che avrebbe fatto, di li a poco, la sua trottola. Un tiro dopo l’altro e... ad uscire, fuori dalla linea segnata, fu proprio quella nuovissima trottola di frassino ancora lucida. Inizia, a turno, la conta “di pizzati”: uno..., due..., tre...: ogni colpo sembrava, a guardarlo in faccia, riceverlo proprio lui, il ragazzo di quella nuova trottola, ne aveva contati trenta di colpi; ne rimanevano ancora cinque. Si soleva fare in quel gioco che, “i pizzàti” oltre a darli con la trottola concorrente, si potevano darli con un’altra, solo che ogni “pizzàta” valeva per due. Fu così che doveva concludersi quel gioco, l’ultimo a dover dare quelle cinque famose “pizzàte” era un ragazzo di grande stazza, con le spalle erculee; tirò fuori una trottola che sembrava un’anguria, tanto era grossa, con una lunghissima punta in ferro, lucida, poco prima limata alla bottega del fabbro Ntoni. Il proprietario della povera trottola, in viso divenne cereo; guardava la sua sofferente trottola, un po' quella specie di trottolone dal viso “Mastino” che avrebbe sbranato al primo colpo quella piccola trottola che aspettava inerme la fine.
Fu un coro: <<Eeeh... oplà!>> Al primo colpo, la piccola trottola, si aprì in due; il ragazzo, prima orgoglioso, ora, si ritirava triste in disparte mentre gli altri ridevano, con la coda dell’occhio guardava quello che era rimasto della sua nuova trottola, frutto della fatica di quei cinque lunghissimi viaggi d’acqua. 
IL VECCHIO PIETRO

- Giovanni, Giovanni! Non ne posso più! Si deve pur vedere cosa ha da farsi! E' da stamattina che giro per casa come una matta!
- Sii buona Concetta, cerca di capire. Non è poi così difficile, sai? Sei tu che vuoi fartene un dramma per sbarazzartene; pensaci un po', non è un soprammobile, sai? Che cosa devo fare? Dimmelo! Ricorda che alla fine si diventa tutti vecchi… e allora?
Da qualche tempo, oramai, la storia si trascina; spesso sono dovuti intervenire i vicini per sedare le liti tra i due. Giovanni, buon'uomo, tutto casa e lavoro; tornando a casa, dopo il duro lavoro nei campi, deve sempre vedersela con la moglie Concetta, una donna che, per le sue provenienze da famiglia agiata, abituata ad avere avuto in casa paterna la servitù e beni d'ogni genere, le veniva difficile ora avere a che fare con il vecchio Pietro che per la sua veneranda età e gli acciacchi ereditati dalla dura vita campestre, lo costringevano a stare quasi sempre seduto e quindi a dover chiedere, ogni qualvolta ne avesse avuto bisogno, aiuto alla nuora. Una situazione che, a Concetta, era divenuta pesante, tant'è che spesso rimproverava il marito per non averle dato ascolto quando gli suggeriva di portare suo padre all'"Ospizio" (allora, casa di cura per anziani).
- Questa, dove abitiamo, è casa che s'è costruita mio padre con grandi sacrifici! - Continuava a ripetere il marito - - Egli ha qua dentro tutti i suoi ricordi! Lo capisci o no? Come faccio a toglierlo da qui? Come posso portarlo in un posto dove sicuramente soffrirebbe di più nel vedersi abbandonato, dopo ciò che ha fatto per i figli? - Sette figli, e tutti migrati per l'Italia in cerca di lavoro; qualcuno s'era già impiantato con la propria famiglia in una di quelle città, e Gianni, terzogenito, avendo trovato lavoro a Belmonte Mezzagno, paese natìo della famiglia, è rimasto ad abitare nella casa paterna, dove già da anni, morta la moglie, il papà viveva da solo. La storia continuava a portarsi avanti per lungo tempo; erano già venuti al mondo Pietro e Vincenzino. Pietro, non appena il nonno apriva bocca, subito gli era accanto. - Cosa vuoi, nonno? Come stai? - - Ho solo dato un colpo di tosse, caro il mio Pietro; su, giacché sei qua siediti, voglio raccontarti una storia. Devi sapere che tantissimi anni fa, quando la fame e la miseria abitavano quasi tutte le case del nostro piccolo paese… - - Ancora con le favole! E i compiti? - interveniva Concetta inviperita - Su, vieni a studiare se non vuoi diventar somaro! - Quasi che ella non digeriva nemmeno i racconti che il vecchio raccontava al piccolo Pietro. - Ma, mamma! - - Niente mamma! - Continuava, borbottando sottovoce frasi verso il vecchio che, a causa della sopraggiunta cecità, non riusciva a scorgere la nuora e capire quant'ella mugugnasse.
Il tempo passava e i piccoli cominciavano a farsi adulti; e per il vecchio Pietro gli anni diventavano sempre più pesanti. I diverbi tra marito e moglie, anziché finire, crescevano sempre più, tanto che il marito per evitare che i figli continuassero a sentire, si convinse a portare il padre in quella casa per anziani: l'"Ospizio".
E così, di buon mattino, mentre i figli e la moglie dormivano, si mise in spalle il povero padre e iniziò la strada per Palermo. Non esistevano mezzi di trasporto in quei tempi. Lungo la strada… o meglio il viottolo che sale per la scorciatoia che da Belmonte porta alla città, vi è (ancora oggi) uno spiazzo, un grandissimo spiazzo con una enorme quercia dove ancora oggi nidifica l'usignolo, e al centro una piccola sorgente (a Giarritedda); Giovanni, stanco e sudato, si fermò per riposare e bere un po' d'acqua, adagiò il padre su una grossa pietra accanto alla sorgente ed emise un rantoloso sospiro: - Ah! - Il vecchio Pietro d'un colpo capì quanto stava avvenendo, e disse al figlio: - Eh, figlio mio, anch'io ebbi a tirare un sospiro quando adagiai mio padre proprio in questo posto, dove tu ora hai adagiato me, mentre lo portavo all'"Ospizio". - Giovanni rimase impietrito a guardare suo padre, e capì quanto egli disse e il significato di quelle parole; si rimise il padre sulle spalle e, anziché Palermo, fece la via del ritorno. Pensava e ripensava, lungo la strada, a quelle parole dette da Pietro: "anch'io sedetti mio padre e tirai un rantoloso sospiro, in questo posto, dove tu ora hai adagiato me." Quelle parole pesavano più di quanto egli portasse sulle spalle. - E mio figlio? Mio figlio, quindi… avrebbe dovuto un giorno non tanto lontano… per questa strada… - Era orribile quanto pensasse; ma era pur vero che, per accontentare le isteriche voglie di sua moglie… li avrebbe educati… - Certo! La moglie! - Pensò. - Aspetta che torno a casa e sentirai cosa ho da dirti! - - Parli con me, Giovanni? - Fece Pietro; mentre il sole cominciava a sciogliere la rugiada mattutina.    

Il libro, sarà distribuito in diverse librerie e si può richiedere anche a:
Matteo Scanavini
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RACCONTI INCANTATI
Così Rino Tripodi, col suo saggio Il mondo arcaico e magico di Rocco Chinnici, introduce Racconti incantati (pp. 98, € 12,00) di Rocco Chinnici, seconda uscita nella collana di narrativa La scacchiera di Babele delle Edizioni di LucidaMente.
I racconti che state per leggere – diciannove, più la Prefazione dello stesso autore, la quale può intendersi come un vero e proprio, bellissimo, racconto memoriale, quindi per un totale di venti – vi colpiranno innanzi tutto per il loro sapore d’antico, quasi di arcaico.
Questa percezione scaturisce sia dalle vicende narrate, ambientate in una realtà contadina che sta per sparire (e in alcune zone d’Italia questo è già avvenuto da tempo), sia dallo stile di Rocco Chinnici, caratterizzato da alcuni stilemi.
L’ovattata stupefazione, i vibratili calori e la magica atmosfera fuori dal tempo, appartenenti ad un mondo contadino arcaico e caritatevole, sono forse le caratteristiche più costanti della raccolta.
Tra Aci Trezza e Macondo
Belmonte Mezzagno, definito Il paese delle favole, finisce per essere un microcosmo a sé stante, a metà tra Aci Trezza e Macondo, senza la durezza del primo e il surrealismo fantasmagorico del secondo.
Nell’insieme, infatti, si delinea un affresco corale: la folla di personaggi – quasi simile a quella de I Malavoglia – e la molteplicità delle vicende, frammentate nei vari racconti, costituiscono, complessivamente, un’unità, come se variegate tessere di un mosaico venissero a delineare un disegno riconoscibile: Belmonte Mezzagno.
È bello trovare un uomo, uno scrittore, così ben inserito nel suo luogo natìo, che, quindi, egli tanto ama e conosce.
E che conserva alcuni valori atavici – grandi e piccoli – importantissimi, che ben traspaiono dai suoi racconti: il rispetto per bambini e anziani (L’ignoranza e l’ingegno, Melo e il pescespada, Il vecchio Pietro, Il vestito nuovo), il rapporto con gli animali (L’orso solitario, Carminiddu, La brocca nuova), il senso della fatica e del lavoro (Il sapore delle cose semplici), il rifiuto dell’ipocrisia (L’amore dei due fratelli).
I ricordi d’infanzia: Chinnici come Battiato
Bellissima, un vero gioiello narrativo, è la stessa Prefazione con cui il narratore apre la raccolta. Un testo che sfiora la poesia, con l’inserimento di ricordi espressi in dialetto.
Una scelta che ci ha ricordato quella del musicista catanese Franco Battiato, anch’egli straordinario nel riportare alla luce i ricordi lontanissimi della propria infanzia (Mesopotamia):
«Lo sai che più si invecchia | più affiorano ricordi lontanissimi | come se fosse ieri | mi vedo a volte in braccio a mia madre | e sento ancora i teneri commenti di mio padre | i pranzi, le domeniche dai nonni | le voglie e le esplosioni irrazionali | i primi passi, gioie e dispiaceri».
Quindi, segni di gesti famigliari, riecheggiati con affetto e dolcezza (Mal d’Africa):
«Dopo pranzo si andava a riposare | cullati dalle zanzariere e dai rumori di cucina; | dalle finestre un po’ socchiuse spiragli contro il soffitto, | e qualche cosa di astratto si impossessava di me. | Sentivo parlare piano per non disturbare […]. Con le sedie seduti per la strada, | pantaloncini e canottiere, col caldo che faceva. | Da una finestra di ringhiera mio padre si pettinava; | l’odore di brillantina si impossessava di me. | Piacere di
stare insieme solo per criticare».
In alcuni casi, la memoria e il paesaggio sono rafforzati da Battiato anche dall’uso del dialetto (Veni l’autunnu):
«Veni l’autunno | scura cchiù prestu | l’albiri peddunu i fogghi | e accumincia ’a scola | da mari già si sentunu i riuturi | e a’ mari già sentunu i riuturi. || Mo patri m’insegnau lu muraturi | pi nan sapiri leggiri e scriviri | è inutili ca ’ntrizzi | e fai cannola | lu santu è di mammuru | e nan sura. || Sparunu i bummi | supra a Nunziata | ’n celu fochi di culuri | ’n terra aria bruciata | e tutti appressu o santu | ’nda vanedda».
Similmente fa Chinnici:
«Vju e guardu lu paisi, | quannu ancora | avìa li balàti | e la genti, fora, |’ntra li strati, | sutta lu suli cucenti, | parrari junciuta, | mentri all’umbra | di ’na manu jsata, | ’na vicchiaredda | cuntannu joca |a lu carmuciu ’mbambulatu, | ca cu lu sguardu assenti, | curri | ’ntra dda fàula ’nvintata ».
Ed è subito evidente quel gusto nell’ascoltare storie e nel narrarle, che costituisce la prima motivazione poetica, l’ispirazione primaria dello scrittore.
Né manca la chiara denuncia – quasi sdegnata – della brutalità dei tempi moderni, dominati dalla fretta:
«La genti, ca tannu | parrava, | ora, fui ’n fretta».
E la conseguente nostalgia del passato:
«jornu senza méta, | cursa sfrinata. | Quantu valuri avia, | oh carmuciu…! | dda manu jsata».
Appartengono pienamente, in effetti, alla sfera della memoria racconti come La trottola nuova, come, qua e là, negli altri, vari riferimenti sparsi.
Le ascendenze letterarie
Nei Racconti incantati possono ritrovarsi vari richiami alla nostra letteratura, in particolare al genere novellistico.
Seguendo un ordine cronologico, e partendo dal passato, potremmo iniziare addirittura da I fioretti di san Francesco, per la purezza quasi evangelica, l’ingenuità, il candore di alcune delle storie di Chinnici. Per non parlare dello spontaneo, leggero moralismo presente in molte di esse (Il seme dell’inganno;
Amici di un tempo; Il vecchio Pietro), che talvolta si concretizza nel motto
di apertura o di chiusura:
«La scienza non ha fine;
l’ignoranza può non aver confini».
Oppure:
«Tintu chidd’omu ca mori pi li funci,
pirchì a stu munnu ’un c’e cristu ca lu chianci».
In Carminiddu, addirittura, compaiono gli animali benevoli, simili agli uccelli di francescana memoria:
«[…] bisognerà fare qualcosa, pensò lesta la gazza, e cominciò, nel suo linguaggio, a chiamare più animali che poteva. Sembrò un miracolo: in un batter d’occhio, sotto la grande quercia si radunò un numerosissimo gruppo d’ogni genere d’animali, improvvisando un bellissimo concerto. L’uomo raccolse le ultime forze e guardò tutti: dal coniglio allo scoiattolo, dall’allodola al cuculo. Poi abbassò lo sguardo, ed una lacrima bagnò Igor, intento a leccare il corpo di Carminiddu, che sussurrava grazie, spegnendo gli occhi commossi, nel vedersi circondato da quel grande e sincero amore d’animali».
Il gusto del racconto, la beffa, l’intreccio inaspettato, ci riportano, invece al Decameron di Boccaccio. A questo proposito esemplare è L’ignoranza e l’ingegno, in cui compare, tra l’altro, un narratore di secondo grado (la nonna).
E, parlando di Sicilia, quali sono i due maggiori novellieri della ricchissima letteratura dell’isola? Verga e Pirandello.
Del primo Chinnici riprende certi andamenti stilistici, la presentazione ex abrupto dei personaggi in taluni racconti, a volte il discorso indiretto libero, la coralità di cui dicevamo sopra, tipica de I Malavoglia.
La presenza del secondo nel nostro autore, che è anche scrittore drammaturgico, si avverte appunto proprio nella teatralità di certe scene, nei dialoghi, nelle riflessioni dei personaggi. Jettatura ricorda alla lontana, se non altro per l’argomento centrale, La patente del genio girgentano, e tutta la vicenda narratavi è facilmente trasportabile in una
rappresentazione teatrale. Non è pirandelliana la denuncia dell’ipocrisia dei rapporti sociali ne L’amore dei due fratelli? L’enigmatica Iana non è simile alle ermetiche novelle, esistenzialiste, dell’ultimo Pirandello?
E lo stesso rapporto autore-personaggi, esplicitato nella Prefazione, ci riporta allo scrittore di Agrigento:
«[…] uno come me, abituato a scrivere, invece, su personaggi nati dalla propria mente che non hanno né tempo, né dimora. Per loro mi trovo ad essere tutto: “madre” in quanto li ho partoriti, padre per aver indicato loro la giusta via, o, meglio, quella a me più congeniale».
Paesaggi da fiaba
Ma, andando a cercare le ascendenze più remote e archetipiche, nei racconti di Chinnici troviamo la fiaba, vale a dire la base ancestrale della narrativa, con la costante presenza del magico, dell’incantato, della vicenda iniziatica (Il frutto del senno).
Si ammiri questo straordinario paesaggio fiabesco (Il paese delle favole):
«Vedevo, in quell’azzurro profondo, una valle incantata: vasti prati fioriti, dai colori stupendi, e un rigagnolo d’acqua che scendeva lento da pendii rocciosi, formando tantissime cascatelle e dando musica ad un melodico gorgoglio che mi trascinava sempre più lontano. M’accorsi di un albero che sovrastava la valle; mi avvicinai e vidi che aveva degli strani frutti… sembravano sorbe; sì, proprio così, sorbe. Tanta gente era lì indaffarata a raccoglierne grosse manciate… qualcuno prendeva il frutto e lo metteva in bocca assaporandoselo».
E, ancora, sempre tratta da Il paese delle favole, molto suggestiva, nella sua soffice e avvolgente magia, nel suo ritmo che la rende simile a una poesia, è la seguente descrizione:
«La campana della chiesa suona l’Ave Maria trascinandomi fuori dal piccolo borgo. Il sole è da poco tramontato e si vedono i comignoli fumare; nell’aria si sente l’odore di caldarroste, mentre la nebbia scende lenta, incappucciando la cima dei monti e avvolgendo in un fascino misterioso questo piccolo paese delle favole».
E l’episodio dell’albero ne L’amore dei due fratelli ci riporta addirittura alla Bibbia e a re Salomone.
Tematiche e personaggi
Abbiamo cercato di individuare alcune tipologie dei racconti di Chinnici e, quindi, di suddividerli in cinque sezioni. Ovviamente, spesso le tipologie sono miste, nel senso che nella stessa novella possono riscontrarsi più tematiche.
Comunque, semplificando: nella sezione I richiami della memoria, alla quale si potrebbe aggiungere la stessa Prefazione, leggerete alcuni racconti incentrati sul recupero del passato, luminescenza lontana eppure calda e avvolgente. Ne I miracoli dell’anima, improvvise epifanie danno il senso della vita, della morte, delle scelte importanti, degli affetti, illuminando tutto con adamantina chiarezza. La sezione Il fascino della fiaba travalica la realtà per pervenire al meraviglioso e all’irreale, abbagliante e musicale come una danza enigmatica. Ne Il piacere di narrare l’espansività fabulatoria dell’autore si effonde in tutta la sua ricchezza e vivacità irrefrenabile. Infine, i Racconti morali hanno l’obiettivo di denunciare le malvagità, le stupidità, le manie degli umani, offrendo, però, anche, tra gli interstizi narrativi, un insegnamento positivo.
A sostanziare le tematiche, una moltitudine di personaggi.
Appartenenti prevalentemente al popolo, sono anche di vario livello sociale:
semplici lavoratori della terra o piccoli possidenti; altolocati, come ne Il sorriso della felicità o Il sapore delle cose semplici, o, addirittura, indefiniti, come in alcune storie fiabesche.
Le tecniche narrative
Chinnici è bravo nell’usare diverse tecniche narrative. Dal lirismo di Iana, al racconto entro il racconto, come ne L’ignoranza e l’ingegno, nel quale l’ambiente della nonna e dei bimbi è avvolto entro ovattate, vibratili, intimità, mentre il secondo livello narrativo presenta uno svolgimento mosso e imprevedibile, attraverso traiettorie centrifughe, illusorie e sfuggenti.
Dalla presenza del narratore interno non protagonista (L’amore dei due fratelli), alla prevalenza del dialogo (C’è sempre da imparare).
Particolare è l’uso molto frequente del punto e virgola.
Il siciliano, anche quando non vengono usati alcuni termini dialettali, è presente in alcune movenze stilistiche, in certa sintassi, negli stessi dialoghi dei personaggi.
Tuttavia, per concludere, possiamo certamente riprendere una delle annotazioni iniziali: la caratteristica principale dello scrittore è il piacere del narrare, con un brulicante scorrere di personaggi e di storie, l’intrecciarsi delle trame entro una mobilissima ottica narrativa, un arioso sospiro di favola e di umanità.
              ALCUNE SUE POESIE
CALCIANDO LA SFERA
Tonda la sfera saltella sul manto erboso,
al rincorrere del bimbo vispo e gioioso.
I primi passi di quei teneri anni,
i primi calci tra corsa e affanni.
Dall’alto la tribuna guarda e tace
di quel fringuello il canto di prima voce.
Volano gli anni, saltella la sfera;
adulto il bimbo sogna chimera;
e la tribuna…
che muta guardava il fringuello
ora applaude anche quello,
bimbo che più non porta le ali
ma radiosi giorni tutti uguali,
ricchi di valori e gioia infinita
in questa breve storia ch’è la vita.
AUTUNNO 
A valle tutto sveste
al vento gelido che soffia;
sui monti all'alte creste
or si rinverde l'arsa terra;
fischia il bovaro in festa
alla mandria a pascolar.
Fra il fruscio del vento
va il canto degli storni;
odonsi spari a valle
alla beccaccia in volo;
canto dei contadini in coro,
a casa volgono il riposar.

CHI SONO


Occhi allo specchio, io guardo;
mi cerco, e riflesso non v'è il mio viso.
Ch'è strano! Mi chiedo.
Scuoto lo specchio
che ladro m'appare quest'oggi.
Quand'ecco apparire
dal retro del vetro, già infranto dall'urto,
un volto pensoso;
si china; raccoglie, ricompone quel vetro
e sparisce.
Mi scuoto, son desto, mi guardo...
ch'è strano...!
E' quello il mio viso ...ricordo.
CIRASA
Arvulu ca chianci
grossi lacrimi di sangu,
dimmi: vidisti forsi
un omu ammazzari
e stai chiancennu
pi lu sò duluri?
Ti chiamanu ciràsa;
e lu libru mi dici
ca si fruttu pi manciari;
iu lu vogghiu sapìri!
Fammi cuntentu
e parra!

FIOCCA LA NEVE
Lenta scendi vanitosa,
ad imbiancare i tetti delle case,
soffice e bianca neve.
Quante carezze lievi
fai a quelle mura
che dell'estate han solo arsura.
Ai bimbi in strada
dai fantasia:
in quei pupazzi...,
che allegria!
E' la nonnina al focolare,
con tanta gioia, a raccontare:
“c'era una volta... or non c'è più”,
tutto quel “c'era” sei solo tu.
 DOMENICA 
Canta il gallo
al lento levar del sole.
Gloria al dì che nasce,
fan le campane in coro.
E le pie vecchiette,
curve
al peso dei tant'anni,
destansi al dì festoso;
pregando in chiesa Iddio
in quel giorno di riposo.

LA VITA CHE SCORRE
 Passando, un dì,
la vidi pensosa,
guardare nel vuoto,
la vecchietta cent'enne.
Il viso suo,
a me, apparìa sereno;
mi fermai a guardar…
lei, nulla!
Solo il vuoto aveva davanti;
rimuginava la sua mente
i ricordi, lontani, lontani
che furono;
s'accorge di me che la guardo…
e in quel viso increspato
emerge un sorriso ondulato.
Io me ne vò sui miei passi,
continuando sì lunga strada;
passi, su passi…
…Poi, mi giro a guardare... nulla!
solo il vuoto m'appare.
Sui miei passi ritorno pensoso;
quand’ecco, pian piano,
in quel vuoto apparire
lo sguardo sereno
della vecchietta lontano che fu.

Rocco Chinnici