Gianfranco Cappai

Gianfranco Cappai è nato nel 1947 a Sinnai, cittadina del Campidano di Cagliari posta sulle prime propaggini del Serpeddì, primogenito di una famiglia di sei figli, con il babbo Vigile del Fuoco e la mamma casalinga.
Dopo aver frequentato il Liceo Classico si iscrisse alla Facoltà di Lettere a Cagliari, ma alcune esperienze non entusiasmanti di insegnamento lo indussero ad abbracciare una più tranquilla e redditizia professione di impiegato.
Non abbandonò la passione per la scrittura, che coltivava sin da ragazzo; nel 1968, appena maggiorenne, si fece promotore della nascita della “Pinella”, prima rivista periodica sinnaese.
Anni dopo si impegnò nella redazione di un’altra rivista locale, “Questasinnai”, in cui pubblicava oltre che articoli e corsivi anche racconti e poesie sotto svariati pseudonimi.
Si è poi dedicato alla sua passione di sempre, la composizione poetica. Ha pubblicato nel 2002 una piccola raccolta di liriche inserite nella antologia “Orizzonti”, edizioni LIBROITALIANO di Ragusa.
Per l’Aipsa Edizioni ha pubblicato i volumi Tracce sulla sabbia (2005) e il fortunatissimo Gatteide (2005), entrambi illustrati dai deliziosi acquerelli di Lorenza Cavinato

La sua ultima pubblicazione.
Alla memoria di Fulvio Fo per amicizia.
Gianfranco Cappai
Primo viene l'Amore e l'Amicizia- Clicca Qui

Es Primero el Amor y la amistad

Dovevamo parlarne, ti ricordi?
Era un gorgo tortuoso,
roteavamo
con voci ormai fioccose
di tormenta
dentro crepacci sordi.

Se ne discusse un po'
prima che lenta
si chiudesse la porta nell'ombroso
giardino, su un abbraccio
di un'inconsueta emozionalità:
era un addio, e un po' lo sapevamo.

Si accartocciava la parola, Fulvio, e un grido
era la tua ricerca di sentenze:
"Alessandro, e anche tu, siatemi confessori!
Vorrei svelare a me le dissolvenze
del buio che intravvedo,
sgrovigliare da cupe ragnatele
una testimonianza
sugli albori
di un'abissale e incerta lontananza".

Così fluttuò malferma qualche frase,
a brani
si strappò il tempo dagli adempimenti
delle ordinarie operatività
intessute a quei fragili frammenti
di escatologiche dissertazioni
e inestricabili ragionamenti.

Ma ora l'estremo sole infine hai visto,
messe hai sul costato
e le ferite
le tue mani
e chiedo a te del martoriato Cristo
cui sei andato accanto.
Fosti vite
che non lasciò infruttuoso il proprio impianto,
mèndico un chicco da riarso pellegrino.


Ci strinse un laccio fatto di parola e di fiammata,
legati da una rima
o un'assonanza
di qualche tratto steso da un pennino,
nomadi erranti che a sera fra le tende
e il deposto fardello
trasognavano al ritmo di una danza
e a un fuoco che si accende.


Era parca e appartata 
la tua sede di scritti e di riunioni,
su una seggiola dentro lo stanzino
rischiarasti talvolta a me un sentiero:
eravamo lontani dai torrioni
in cui volteggia una finzione alata.
Ma non alludo all'arte, che è un castello
cui mi accostai procedendo a tentoni
 e mi è già tanto stare accanto al soglio;
parlo del lume che donasti impagato,
che niente sporca
perchè ci fu purezza in quel chiarore.

Me lo attesti incalce
impreziosendo il margine del foglio
chiedendo a Lorca
un fiore che non stronca alcuna falce
sbocciato in versi che a Dalì porgeva:
me ne offristi l'essenza
ed il colore
( in poesia lo si può, senza malizia )
e fu anche nostra, ed alta, la sentenza:
primo viene l'amore
e l'amicizia
(da Tracce Sulla Sabbia)
L’Attesa


Me ne resto qui assorto
accucciato in un angolo del tuo cuore
a contare le ore
vicine del tuo ritorno.

Tale ho rifugio nel tuo calmo porto,
sole frangono l’onde
che assopiscono sulla sabbia
del torpore il barocco contorno.

POETA

Non parlar di “poeta”. Nome strano,
sa di diverso,
richiama coste viste da lontano
azzurre e frastagliate
nubi al mare bagnate
che disperso
il naufrago segnala con la mano.

E sono forse devastante miraggio,
forse luce d’inganno
tremula nel suo raggio,
rivoli di un affanno.
O forse un’isola, trepida visione
che la schiumosa ondata batte e liscia,
scivolosa illusione,
infida striscia
di un percorso obbligato.

Dici “poeta”: sono solo un bambino
che si rifugia dentro il suo solaio,
rannicchiato
cerca tepore, al soffio di gennaio
che ossida il vetro del suo spioncino.
Guarda il mio lume; vedi, è tremolante
e soffre al vento,
sopravvive al riparo, freme forte a sussulti
solo per qualche istante.
A volte può sembrare quasi spento.

Ciò ch’è vero è che radi virgulti
colgo ogni tanto, o un fiore;
un tenue mazzolino
che il caso e il sole e un affetto compone,
con qualche spennellata di colore
solerte io ne sono l’imbianchino.
Piccole cose buone,
poche cose;
li dono solo al buio quei profumi:
al fuoco dell’altare ed ai suoi fumi
fuggono le mie rose,
mi chiude ibisco i petali al mattino
e il mio alloro ha le foglie corrose.
 PREFAZIONE A GATTEIDE
Di Giuseppe Pusceddu
 
Questo che vi apprestate a leggere, devo avvertirvi, non è un semplice libro che parla di gatti, una mera raccolta di poesie sui gatti; è piuttosto un classicheggiante poema epigrafico felino, un
corale edgarleemasteriano ritratto di gatti fatto da se medesimi.
L’autore di questa anthology, che in versi e in rima ci introduce nel meraviglioso mondo dei pelosi compagni saettanti, si chiama G.F.C., sì:
solo iniziali per l’autore, perché, ci spiega,

Non spetta un nome scritto per esteso a chi membra feline non ha avuto.
Avrete dunque già capito l’importanza della nomenclatura nel poema;
questione che, ad onor del vero, rimanda direttamente ad un classico della letteratura felina, esattamente a quel Old Possum’s Book of
Practical Cats di T.S.E. (Thomas Stearn Eliot).
Ma, prima di tutto, prima cioè di parlar di gatti, come si danno i nomi ai gatti?
T.S.E. ci ha fatto sapere che dare i nomi ai gatti è una cosa seria, mica un passatempo domenicale:
The Naming of Cats is a difficult matter,
It isn’t just one of your holiday games…
La faccenda dei nomi è affare proprio difficile, tanto che questo poema, dove i gatti fanno onore al nome con l’aspetto, viene arricchito da una esauriente Gattonomenclaturscopia scritta a mo’ di postfazione da F.F. (Fulvio Fo).
Questo libro è anche studio sociale che si occupa di gattini senza nome, di drammi che parlano di abbandoni e mancanza d’affetto e carenza di viveri; ma in questo ambiente trova fortunatamente posto anche la dolce favola di una gattina arlecchina chiamata Pezzatina. Leggete il bellissimo incipit della poesia a lei dedicata:
Vorrei sapere chi inventò il mio manto
a macchie variopinte, a straccettini
incollati, di pelo un poco raso.
Sembrano usciti da storie incantate, questi gatti a volte reali e a volte ipotetici: strada facendo incontriamo un gatto signorotto dalle guanciotte piene, a cui manca però la bombetta; più in là troviamo un randagio più libero degli altri; un altro che avrebbe potuto avere gli
stivali e scomparire dietro un sorriso; altri ancora vaganti ectoplasmi che mai ebbero vita.
Spesso i gatti reali sono ripresi in articulo mortis. Catone, figlio di Apollina, ultimo erede di Musetta, confessa che
Fu una tosse
maligna, una sottile malattia
che mi sbarrò la strada.
Mentre Grigia, invece, che aspirava in cuor suo ad un ruolo nella
società e al titolo di gatta “ad honorem”

(lei così fuori schema tanto da non miagolare), 
si avvia a diventare nell’istante supremo una grande
figura d’opera tragica tanto che
Nè un cigno avrebbe avuto maggior grazia
né alla Scala
la ballerina un gesto più leggero.
Il mio fu più profondo, più esaltante:
io morii per davvero.
Sembra quasi che il ritmo al poema sia dato dagli stessi piccoli animali con i loro movimenti, i loro gesti, la loro mimica e la loro prossemica, che possono metaforicamente di volta in volta essere come onda mattiniera nella battigia, o tifone impazzito dal dolce lineamento, o rombo di potenza corposa, o ansare tremulo, o miagolìo
alitante.
I protagonisti del poema serbano dei ricordi, tristi o allegri, amari o dolci, legati ad eventi, situazioni, paesaggi, parole, Tutta questa ricchezza fatta di ricordi deve essere in qualche modo condivisa.

 Ed ecco il messaggio, sorprendentemente e stupendamente montaliano nei termini della richiesta, che ci trasmettono per bocca di Tatiana:
Dove poter trovare una parola che me racconti e sgretoli la brina che mi incrosta?!
Per tutti i gatti sembra che pesi un inesorabile destino. Arrivano in punta di zampette, stanno un poco e poi se ne vanno, lasciando nell’aria dei fssss…fssss… o dei mmme… e dei mmao…, suoni richiamo di preghiera. Quel che poi resta sono queste sensazioni di perdita:
E’ stato come un refolo di vento
passato in un momento,
bambagioso folletto spensierato
che visse niente più che una stagione
eppure fu contento.
Con la similitudine gattina/refolo di vento, che chiude la poesia
“Cornelia”, G.F.C. ci ricorda che i gatti, qualunque nome possano avere, una volta conosciuti non si dimenticano tanto facilmente; più o meno come capitò di scrivere a C.B. (Charles Baudelaire), a proposito di un bel gatto che
Dans ma cervelle se promène,
Ainsi qu’en son appartement…
E proprio dei gatti che passeggiano nelle nostre stanze del cervello come se fossero a casa loro, pare siano i segni, probabili impronte sinestetiche, lasciati in questo libro.


(da Gatteide)
CORNELIA

Fsssss…..fsssss….. sfrigolava la ringhiera micetta tonda tonda
rotolosa,
mmme ?!....mmao?!.... era forse una preghiera,
forse un richiamo di compagna giocosa
che celia al desiderio e poi lo varia:
lei si stagliava in posa
come compunta rosa
graffiando l’aria
immobile, la gattina smorfiosa.

E sembrava da tanto
che al suo pianto
correva l’ansietà d’un ragazzetto
a ripulirne il sangue raggrumato,
da un fossato
raccogliendo l’ansare di un musetto.

Poi è bastato veramente poco,
finì il gioco,
piccolo estremo giorno, piccolino
inesorabile
improvviso destino;
e di quel labile
svaporato mattino un luccicone
piange l’irrevocabile declino:
sveli con imbarazzo l’emozione
per un cosino amato, un sogno estivo
che dorme fra le palme del giardino
ed un nascente ulivo.

E’ stato come un refolo di vento
passato in un momento,
bambagioso folletto spensierato
che visse niente più di una stagione,
eppure fu contento.
TRE – 3
Fummo gocce del mar, gatti diversi,
briciole rifiutate, chicchi persi
di un cattivo raccolto;
giungemmo un giorno in un ansante gruppo,
mucchio strano e stravolto
di arruffato viluppo.

Fu nome a tutti un suono collettivo,
tre il numero elevato alla potenza,
in cui si confondeva ogni destino
individuale della nostra esistenza;
ognun di noi fu privo
di una chiamata che desse una presenza
a ciascun emaciato fagottino:
noi che fummo gattini senza nome
vivemmo anche d’affetto degli avanzi,
tre straccettini ondeggianti nel vento
magri da far spavento
che stavan su senza sapere come.

A cacciar magri pranzi
talvolta infida avidità felina
noi vestivamo, in pose
ereditate con gattesco orgoglio,
sfuggenti ombre pelose
cresciute confinate nel rifiuto,
oscure a sera e buie alla mattina:
ma almeno in questi fatti,
per Poseidone, vivevamo da gatti!

A noi, vizzo germoglio,
neanche la morte aggiunse un connotato
per arricchir l’inesistente storia
che la sorte ci aveva già assegnato;
sparimmo ad uno ad un, senza un lamento,
senza neanche un brandello di memoria
che facesse da qualche monumento,
ignari di un sorriso a noi profuso.

Forse nell’ora estrema fu la brezza
che fra l’erba indugiò sul nostro muso
a regalarci l’unica carezza. 

C O R O F I N A L E


Infine gli annegati
mici neonati
abbandonati
inermi trucidati
che mai vedemmo il sole
sotterrati.

Si spendono per noi poche parole
ma siamo innumerevoli
rivoli sterminati
di vivere neppure consapevoli.
Siamo gli eletti, noi,
già consacrati,
N O I
(almeno in questo modo nominati)
puri e incontaminati
ci dissolvemmo in polvere
senza avere un’età.

Frenate prego la vostra emozione
niente lacrimatoi
siamo informe ricordo, siamo il rudere
che resta a testimone
della labilità,
su noi fa perno l’interrogazione
se esista o no l’individualità.

Figuriamo il destino evanescente
che a volte dona vita alla materia
a volte niente
a volte dona e toglie malamente,
mestolo lercio colmo di pastone
buttato dal portone
casualmente:
il destino non è una cosa seria.
Non c’è una spiegazione;
il nibbio vola, il verme striscia in terra,
un micio vive lieto,
un altro erra
come spettro ululante in un canneto:
per tutti è un caso la destinazione.

Dentro galassie indistinte e nebbiose
siamo le particelle elementari
siamo i rari
esempi di totale donazione:
ci racchiuse la sorte
in particole ombrose,
puntini dei disegni di natura
escatologici ed universali.


Non sappiamo neppur se vita o morte
fosse davvero quella nostra pura
pretesa di infinito
alla rinfusa in forme di animali,
palpitante pulsante incarnazione.
Fortuitamente creta fatta a gatti
ci sublimammo dentro un divenire
da subito disfatti
senza averne qualunque un’avvertenza,
ignorati da un censo.
Se esiste chi può dare a questo un senso
che ce lo venga a dire
che ce l’indichi a dito
ci risponda qualcuno se ha sentito!!
Non avemmo coscienza
e la chiediamo a chi la può elargire.

Esiste un nume?
Esiste chi
con scopo
creò le forme
e rivestì l’implume
inventò il prima e il dopo
divise il lì dal qui
e in torme
d’attimi ed esseri plasmò la storia?
E in base a quali norme?

E noi, che fummo un attimo distratto,
quale senso vi abbiamo
quale tratto
a ognuno dedicato
è il nostro individuabile richiamo?

E’ questo il nostro fuoco
ed il fuoco ha natura universale
brucia tutto di un rogo
sempre uguale
è il dovunque e al contempo stesso luogo:
che qui si trovi il bandolo del gioco?
Che questo sia ciò che si chiama vita,
fuoco che eterno brucia e poi ricrea
famelica magmatica marea,
e tutto ciò sia dentro un’infinita
compressione del tempo in un istante?

Sì che ci ammassa tutti
e tutti siamo
fronzoli di un ricamo
schiume sbattute e frante
dei medesimi flutti.

AIPSA EDIZIONI – Via dei Colombi 31 - CAGLIARI
Tel. 070 306954 Fax 070 344343
www.aipsa.com 
Aipsa Edizioni

Avvicinare i versi di Cappai a qualche lettore dall’intelligenza aperta e dal “cuore veloce” è speranza commovente per chi ne ha sperimentato, nei riflessi suggestivi della propria sensibilità, le doti di dolcezza, di intimità, di inquietudine e di umanità in armonia stretta con le virtù di canto e di emozione. 
Acquerelli di Lorenza Cavinato
Gianfranco Cappai e la Poetessa Iole Chessa Olivares

ES IST VOLLBRACHT

Cristo era donna;
quel giorno l’ho veduta,
la sua croce una branda:
lì distesa
ci cancellava i mali

e noi cercando un faro,
naviganti dispersi in onde torbide,
turba sparuta
senza slancio o riparo,
brancolavamo verso le sue mani.

Erano inerti ali
illividite nei pallori umani
ma pronte a un volo lieve
disgravate dai grumi di una massa obesa
ingrommata a fanghiglie ed a sbeccati orpelli.

Il suo oriente ansimava oramai sorto
ed era lì quel porto
come un miraggio in fondo a una distesa:
quando i nostri battelli
sapranno fare rotta per quel mare?

Tutto è compiuto, sì, povera amica,
ma noi più poveri, lordi fardelli
penzolanti da fradice incertezze,
vele squassate dalle opposte brezze
del volerti raggiungere o restare.

OTTO MARZO

Con un’occhiata,
bimba dai molti anni, hai discoperto
dall’ossido il tuo petalo, e il profumo
di rosa
già sbocciata
avvolge la sua spira.

E’ brezza in mare aperto
eppure vorticosa
sequenza in cui traluce inizio e fine
di ogni principio e sintesi.
Sei ciò che ora mi appari e sei il trascorso,
insieme il primo e l’ultimo,
sei ardita staffetta di confine
e custode del fuoco
che garantisce il rogo di ogni nemesi.

Così vedo te donna, condensata
pagina in cui ogni riga ed ogni passo
apre e chiude le porte,
tanto che affido all’agile
movenza tua felina, equilibrata,
la mia sorte
fiondata come un sasso
da un sussulto di sguardo e dal tuo polso
fragile e così forte.


POMERIGGIO A VENEZIA

Barocco e gotico intriso d’arabesco
riflesso in lumi opachi sui canali,
facciate verticali
sussiegose
e sotto quel tuo sguardo principesco
mi dilaniavo incerto
se arrendermi alla triste tua dolcezza,
Venezia, illanguidita in un concerto
di sfavillii precipiti al tramonto.

Troppo spietata è sempre la bellezza,
afferra inesorabile, uno scampo
invano cerchi in un lembo di mente
da quel lampo
che non tollera affronto.
Incapace di fuga o di un assenso
ero groviglio di un’evanescente
fuggevole e dicotoma veduta,
sperduto nel mio limite
di materia marcibile e incompiuta.

Pure ti amai quel giorno,
mentre lo sciabordìo lento sul molo
fra qualche incerto stipite
ed assi putrescenti, era contorno
ai racconti, alle frasi, ad un’amica;
sfioravano enigmatiche strutture
i nostri intrecci e fili e sguardi e motti,
soffi e quasi onde nuove d’aria antica
vagabonde fra campi e architetture.

REPERTO ovvero LA PAROLA SMARRITA


Fra i detriti
traslucida
relitto rotolato sul pianoro;
forse l’abbandonasti sotto il peso
del tuo plumbeo raccolto, dell’affanno
di un possesso conteso,
opaca e trucida
lotta di curvo cercatore d’oro.

La nebbia, incerta figlia
delle fluttuanti esitazioni, immobile
saluto dell’inganno
inghiotte
muta e vorace il tuo pensiero
perso
da un infinito giorno, eterno anno
incalcolabile, oltre tutte le rotte;

e il verde
lento marcisce, anche il velluto nobile
si scolorisce, è spento
il balenante lume del tuo verbo:
giace
tuo terroso reperto, tua parola
fra zolle polverose obnubilata
e con la fede sconfinata
attende.

Sì, è per te che protendo la mano
rassettando le scorie del suo dorso
malamente
da inesperto artigiano
e viandante qualunque di un percorso,
navigatore improvvido nel volgo:
prendila,
torniscine il sembiante con la mente,
per te io la raccolgo.