Giuseppe Lentini


Scrittore e Poeta distinto, colto, avverso all’ipocrisia, affronta ogni problematica con stile ed efficacia.
Una scrittura lineare la sua, essenziale, fluida , incisiva e profonda, penetra la realtà umana e la presenta senza veli.
Le Sue poesie ritraggono la profondità del suo essere, acquerellano senza affettazioni estratti di vissuto con finezza e romanticismo velato che emozionano il lettore.

In un mondo dove l’opportunismo e il compromesso sono legge, il suo pensiero si erge a favore del giusto e del vero. Sposato con una nobildonna, e appartenendo lui stesso ad una stimata famiglia siciliana (il fratello Francesco fu il fondatore del Premio Mondello), si dissocia dal giudizio e dal pensiero borghese per favorire lo spirito della gente semplice di cui è sostenitore .


Eleonora Ruffo Giordani


 Fuochi fatui

Infinito
Immensità che appare
camminando su un raggio di sole
senza guardare il mondo

Giuseppe Lentini

Nato a Palermo, cresciuto tra Agrigento e Padova, brevemente a Firenze, ha seguito studi lucidamente incoerenti,tra umanistici ed economici.
Ha fatto radio come autore e conduttore e cinema come attore per eredità materna e per diletto.

Fa il consulente di marketing strategico nel nord est italiano, allestisce cioè il corretto ingresso sul mercato a chi produce. Per viscerale avversione, oltre che per culturale educazione, evita le aziende inclini a escogitare inutili consumi.
Vive fra Treviso e Vicenza, dove lavora e scrive.
Il suo primo romanzo è stato ³ il segreto della cima sette ³, il secondo e ultimo è " com'è stata la notte? ". A questo è stata assegnata la targa d'oro al Premio Internazionale ³ Memorial Gabriele D'Alma ², in Salerno.
Conserva nel cassetto una raccolta di tentativi che altri definiscono poesie, ma dinanzi alle quali esclama: < non sum dignus >.
E' nato nel '930 e ciò malgrado sostiene che non conta quello che si è fatto, ma quello che si ha ancora da fare. Alla sua età può sembrare un'impresa, ma non vi bada. 


La leggenda di ALINA
Racconto di Giuseppe Lentini


Correva l’anno 1312. Era la notte del Santo Diavolo e tutto accadde proprio allora.


Il drappello dei mercenari si dava alle gozzoviglie per festeggiare il patrono delle guerre e gli sguaiati canti della ciurmaglia che si avvinazzava tenevano desti gli abitanti di Camisius, come già altre volte era accaduto.

Erano armigeri al soldo dei padovani, sempre in guerra coi vicentini, anche dopo la sconfitta degli Ezzelini nel lontano 1260. Si trovavano lì per ritirare i cavalli destinati a colmare le perdite dell’ultima battaglia e continuare quindi la guerra. Camisius era infatti il mercato dove venivano a comprare cavalli ora i padovani, ora i vicentini indifferentemente e gli astuti abitanti del luogo ne traevano gran profitto senza peraltro mai partecipare alle dispute guerresche dei due contendenti e senza nemmeno essere aggrediti, protetti come erano dalla palude che li circondava.

La soldataglia sarebbe dovuta ripartire all’alba del giorno appresso, con i sessanta cavalli che erano stati comperati, ma quella volta qualcosa sarebbe accaduto che ne avrebbe tardato assai il risveglio: ci avrebbe pensato Giordano, un giovane venuto da lontano.

Nell’accampamento i canti andavano sbiadendo: il vino aveva fatto il suo effetto e i soldati cadevano uno a uno in terra, sbracati così come si trovavano; non si sarebbero svegliati che molte ore dopo, a giorno ormai inoltrato.

Anche Albione Barbaro, il loro tristo comandante, era crollato in terra, come fulminato, a pochi passi dalla tenda dove teneva Alina segregata come una schiava.

Albione venne chiamato Barbaro a causa della sua ferocia in battaglia. Aveva il viso sfregiato dal fuoco di una torcia che gli era stata appiccicata in volto da un nemico che con questa trovata si salvò scappando mentre l’altro si contorceva in terra. Da quella volta era divenuto repellente e nessuna donna gli si sarebbe accompagnata se non fosse stata costretta con la forza. Accadde così che un giorno adocchiò una fanciulla inerme in un villaggio dove era di passaggio e la rapì traendola con destrezza sopra il suo cavallo in corsa. Quella fanciulla si chiamava Alina, nata da contadini che tiravano la vita coltivando granaglie nella piana, in un podere degli Arcadia Plini.

Alina era teneramente innamorata di un giovane, che la riamava con altrettanta dolcezza. Egli si chiamava Giordano, nome che gli veniva dal fiume della Palestina dove la storia vuole che vi fosse stato battezzato Gesù. Origine di questa scelta era stata la devozione al cattolicesimo dei suoi genitori, agricoltori anch’essi, umili e remissivi.

Il caso però voleva che Giordano non fosse remissivo affatto e, saputo del ratto dell’innamorata e appreso chi ne fosse stato autore, si mise a seguir le orme del Barbaro, di villaggio in villaggio, pervenendo presto al bivacco che quegli aveva impiantato a Camisius.

Da buon contadino Giordano conosceva il talento a provocare il sonno dell’erba Camilla e si mise a cercarla intorno e a raccoglierne quanto gli sembrò bastante. Quindi rubò una secchia in un cascinale, la riempì di acqua presa da un canale e vi immerse tutta l’erba colta; poi accese un fuoco di sterpaglie secche e vi mise a bollire la bigoncia. Dopo qualche ora di cottura ottenne un infuso denso e lo portò con sé attraverso i campi fino alla palude. Scelse il guado adatto finché vi fu luce e al crepuscolo l’attraversò guardingo fino a Camisius, al limitare dell’attendamento di Albione.


Cominciati i festeggiamenti del santo diavolo cominciarono le bevute, mentre la sera era appena calata. Giordano quindi si introdusse di soppiatto dentro il campo e raggiunse la botte del vino a cui la soldataglia attingeva con incredibile frequenza. Quando gli parve il tempo giusto versò, non visto, il suo decotto nella botte perché si mescolasse al vino. Nel giro poi di qualche tempo assistette al progressivo crollo dei soldati sopraffatti dal sonno che l’emulsione di vino ed erba camilla aveva loro procurato.

Venuto allo scoperto, Giordano si mise allora a cercare nell’accampamento la sua amata. La trovò, legata mani e piedi, in una tenda più discosta, quindi la liberò e la condusse in una corsa a perdifiato attraverso fossi e canali e campi.

Non andarono distante, raggiunsero una rocca e vi entrarono; lì non li avrebbero cercati: infatti non erano discosti dal paese e quando li avrebbero inseguiti l’avrebbero fatto nel raggio di una notte almeno di cammino intorno.

Quella rocca era stata un carcere; chi sa perché, era chiamata “prigione della goccia”. Poi venne abbandonata e perse il vecchio nome. Vi trovò posto un frate ottuagenario, con una lunga barba bianca e la fama di santone: fra’ Calogero. Quando vi si rifugiarono Giordano e Alina il frate li ospitò e li nascose, finché non giunse la notizia della morte in battaglia di Albione Barbaro, un anno dopo, quando Cangrande I della Scala venne in aiuto ai vicentini, insieme ai quali cacciò i padovani. Fu in quel tempo e in quel luogo che Alina e Giordano, dopo essersi promessi, nella attesa, dedizione eterna, furono uniti secondo il rito in matrimonio da quel frate generoso e finalmente poterono raggiungere i loro cari e formare la famiglia che avevano sognato.

Da allora quella rocca fu consacrata dalla credenza popolare come il simbolo dell’amore contro ogni avversità, così come avevano dimostrato Alina e Giordano.

Oggi quella rocca la conosciamo come Torre Rossa e la Camisius di allora vien detta Camisano.

- i fatti qui narrati sono di pura fantasia dell’autore, sono una favola;


non vi scorrono nomi, date e fatti ascrivibili a realtà di allora o contemporanee. Di vero esiste tuttora soltanto la Torre Rossa, miracolosamente conservataci, ove aleggia e si respira l’amore che da secoli vi ha il potere di permeare di sé il cuore del visitatore che ne sfiori l’ingresso –

S e s t o S e n s o -


racconto di Giuseppe Lentini

In principio la sua era una piccola casa e un laghetto. Poi venne il giorno in cui decise di piantare anche un alberello in giardino. Si trattò d’un ginepro, alto appena trenta centimetri o poco meno. Cominciò così questa storia; lui era Renato.

Quello che diceva essere un giardino era una fettuccia di terra che per lui era “il giardino”. La sua casa s’affacciava sul laghetto “Margherita”, fino a quando non posero fra di essa e la riva un serpentone di mattoni e cemento. Una cosa lunga lunga e bassa, che veniva chiamata “palazzo” solo perché dentro vi erano ricavate delle minuscole abitazioni. Prima del serpentone si vedeva la campagna e, appunto, il laghetto dove Renato faceva solitarie passeggiate e altrettanto solitari e inutili tentativi di pescarvi pesce.
Quell’indebita edificazione sembrava proprio un grosso rettile strisciante lungo il margine dell’acqua. Una costruzione finita in men che non si dica, con la rapidità di quando si ha il timore d’un ribaltamento del consiglio comunale che l’ha autorizzata e la conseguente nomina di un altro sindaco forse meno accondiscendente.
Una volta privata del panorama lacustre che vi era sempre stato, la casa di Renato si
svilì come un vestito smesso. Ma egli si intestardì a indossarlo ugualmente e, per mostrare a sé stesso la propria potestà, piantò quel piccolo ginepro proprio di fronte al rettile invasore. Una volta cresciuto, pensò, gli avrebbe almeno in parte coperto la vista di quel dirimpettaio indesiderato.

Passarono sei mesi o poco meno, ma il ginepro non era cresciuto affatto. Il rammarico di Renato era grande: ne aveva avuto ogni cura, l’aveva annaffiato ogni sera, aveva comprato il concime e glielo aveva dosato a settimane alterne. A lui era parso di far bene, come le mamme che cibano di pappe e vitamine i loro bimbi, talvolta esagerando, per farli crescere più alla svelta. Perché non avrebbe dovuto funzionare anche col ginepro? Se l’era dunque aspettato due o tre centimetri più alto, invece niente. Gli suonava come un tradimento.
” Che sia un ginepro nano?” - si domandò un giorno. E perché non ci fossero
equivoci glielo domandò chiaramente:
come Dio comanda? >. Ma quello rimase muto, come era giusto che fosse.
Poi venne la mattina in cui accadde il fatto: gli parve di vedere che il ginepro
lo stesse osservando con aria un po’ seccata e sguardo arcigno. Gli si avvicinò
e, non si seppe come, si sentì invitare a piegarsi per arrivargli accanto con
l’orecchio. Non ci crederà nessuno: Renato sentì il ginepro parlare. < Non sono
nano > disse. Dopo più niente.
Aveva parlato con una vocina come un ticchettìo sillabato, non una voce vera.
Sbalordito e incredulo Renato provò a stimolarlo: < Sei un albero o l'anima di
qualcheduno? … come mai parli se sei soltanto un vegetale? >. Ma l’alberello
tacque indifferente e alla fine l’altro si diede del babbeo: < Un albero che parla?
Dove si è mai sentito? Nelle favole, forse, ma nella vita reale? A dirlo in giro mi
darebbero del matto >. E bofonchiando, bofonchiando se ne andò per le sue.
- 1 -
Ma il fatto tornò a ripetersi dopo alcuni giorni, senza che se l’aspettasse. Accadde di sera. Tornato dai suoi giri, Renato aveva parcheggiato l’auto in giardino, come soleva fare. Stava giusto raccattando i suoi giornali e le cose che si portava appresso nelle girovagate sue usuali, quando l’attenzione gli cadde verso l’alberello mentre questo gli faceva segno di avvicinarsi muovendo un rametto dei suoi, proprio come facciamo noi agitando il braccio per chiamare qualcuno. Gli si avvicinò, quindi, e gli si chinò accanto porgendogli l’orecchio. < Renatino … > gli disse l’alberello.
A sentirsi chiamare per nome, financo col vezzeggiativo, Renato si sentì inebetire. Stordito e incredulo, gli si accostò più dappresso per assicurarsi di non aver sognato, ma sperando d’averlo fatto, quando il ginepro ripeté a dire: < Renatino >, con un fil di voce, anzi con un tenue scoppiettìo simile al tremulo scintillìo che talvolta si avverte nel telefono a filo.
Renato stentava a credere quello che gli stava capitando e si sforzò di supporre che si stesse trovando nel suo letto in preda a un sogno inconsueto. Sotto questa suggestione si sdraiò per terra, stese le gambe, tese l’orecchio e proprio in questa posizione udì meglio il seguito del discorso del ginepro: < Non è colpa mia se non cresco come vorresti tu. Devi avere pazienza, mi sto ambientando, ci vuole tempo. Per noi ginepri il tempo è diverso, fai conto che un mese dei tuoi per gli alberi equivale a un giorno e anche meno >.
< Di questo passo morirò assai prima di vederti coprire la vista del serpentone > gli
rispose Renato. < Ma io non potrò mai nasconderti il serpentone - rispose l'alberello -
non crescerò mai tanto: mi hanno fatto bonsai e non so farci niente >.
A quella confessione Renato si sentì vittima di un sopruso: vide stuprata quella che riteneva la legittima aspirazione a vendicarsi del vituperato serpentone. < Bonsai, bonsai - ripeté a sé stesso - mi hanno dato un bonsai, che ci potrò mai fare con un albero nano? >.

Trascorsero settimane senza che il piccolo ginepro potesse più parlare con Renato; questi, infatti, aveva accuratamente evitato ogni contatto col giardino. In quanto all’albero, non l’innaffiava più,
Qualcosa tuttavia andava agitandoglisi dentro, qualcosa che prima era stata rabbia, livore, astio mordace senza sapere bene verso chi, né verso dove. Poi cominciò lentamente a fargli capolino nella testa la ragione e presto lo rapì una malinconia a cui aveva fatto da battistrada la conclamata sua solitudine, della cui desolazione aveva sempre riso, ma che ora gli veniva a maturare malamente. E venne una sera piena di suggestione in cui stava al balcone con la mente adagiata fra le stelle e gli occhi che affogavano in un pianto incontinente.
Decise infine di scendere in giardino a parlare con “lui”, cosciente ormai che questi era divenuto incontestabilmente suo amico, l’unico che avesse.
< Ginepro > gli disse < posso chiamarti Ginepro? >
< E' questo il nome che mi avete dato voi umani.> gli rispose l’altro.
L’albero aveva pronunciato “umani” come se avesse detto “nani”, osservò Renato. Ma forse era stato solo un difetto di pronuncia, osservò ancora. 

< Ginepro, scusami per quel che ho detto, sono stato un somaro; ma cerca di capirmi: ero contrariato dal saperti così piccolo senza alcun rimedio; mi sono sentito vinto. >
< Si é piccoli se ci si raffronta alle apparenze. Pensi che io sia piccolo? Ma, io sono la foresta, questa rosa accanto a me è tutti i fiori, tu sei tutti gli uomini e insieme siamo la terra. Capisci? Noi siamo la terra! E la terra è l'universo intero, il mistero, ciò che chiamate Dio. Che sarà mai quel serpentone fatto di pietre, inerte? >
< Se nasco un'altra volta …. > disse allora Renato.

- 2 -

Non potei sentire il resto della frase, perché la disse in un linguaggio che potevano capire soltanto lui e Ginepro. Lo lasciai in quella posa, non potevo più udirlo, parlava con i suoni del suo sesto senso, potevano capirlo soltanto le piante e le persone eccezionali. Cosa che io non sono.
Da quella sera Renato rimase a dormire sempre lì in giardino. Ne parlarono i giornali e le televisioni, vennero da altrove gli scienziati che studiavano le piante e che avevano già scoperto che esse provano emozioni. Ma senza sapere quali.
Alcuni, venuti dall’Irlanda, studiavano di convertire i segnali chimici dei fiori, come gli odori, in segnali digitali capaci di comunicare con noi uomini. Osservarono a lungo il gineprino e Renato, ma senza capirci niente.
Se vi fosse andato un poeta avrebbe capito che Renato ha un sesto senso nel cuore, racchiuso nelle parole di Ginepro: “Io sono la foresta, questa rosa accanto a me è tutti i fiori ……..”
Non sarebbe stato il solo, l’aveva già capito Neruda quando scrisse:
“questa foglia sono tutte le foglie, / questo fiore sono tutti i petali
e una menzogna è l’abbondanza. / Perché ogni frutto é lo stesso,
gli alberi sono uno solo / ed é un solo fiore la terra”.
Poi venne Natale e il giardino si coprì di neve. Il ginepro era tutto illuminato di candeline bianche, rosse e celesti. Accanto era sorta una capannina che prima non c’era stata, fatta di paglia e sterpi; sembrava la stalla di Gesù bambino.
Dentro vi giaceva Renato, tutto imbacuccato in un montone. Dormiva beato nonostante il freddo acuto. Sembrava un bambino. Forse lo era. Gli rimasi accanto non so per quanto tempo ed egli era sempre lì, senza essersi mai spostato.
Conobbi Renato, e fu per caso, proprio in quei giorni in cui si seppe la sua cosa. Voi mi conoscete adesso ed è per caso. Ma il caso non esiste: tutto è collocato a bella posta con uno scopo preciso. Per aiutarci l’un l’altro, per aiutarmi a capire se è vero quel che dico. Se sì, cerchiamo insieme di stimolare il senso per il creato, a parlare con le piante e con tutte le creature che non capiscono il nostro linguaggio banale.
Forse mentre tento di farlo già lo faccio, forse anche voi già lo fate.
E non crediate che sia soltanto una favola di Natale: si può fare. 



Alcune sue Poesie

Reperto 1

Manoscritti smarriti
Inquietudini su carta

Segni di matita
Segmenti ortogonali
Ascisse e ordinate
Di grate subliminali
Prigioni
Di pensieri antichi
Gravidi di pesi
Da carcerati ai Piombi

Speranze cui promisi
Impossibili arditezze
Scarabocchi

Reperto 2

Coccio
Trovato nella campagna
Quando fra le sterpaglie
Si scorgono rapprese
Le fenditure della terra secca

Frammento
Ch'è già stato antico vaso
Quand'era tutto in uno
Sé stesso intatto
Molte vite addietro

Reperto
Di dinastia disciolta
Come sego
Sopra fuoco di legna
Nell'autunno di miseria freddo

Ricordo
Ridotto a cosa
Che si prende a calci


Sidera Ultima Thule

Gelsomini
Ai tralicci
Dei pensili giardini
Della mente
Profumi
Bianchi e gialli
Pensieri lievi
Di mobili farfalle
Fantasie volatili
Ai punti cardinali

Catture terminali
Celebrazioni estreme
Dimore senza casa
Ripudiato il terreno.

Aneliti

Sarà l'alba a vestire
Di bianco le spoglie
Delle vaghezze inani
Nate senza natali

Gli angeli dai cieli
Verranno ad ammantarne
Coi petali di rose
L'ascensione


Fisicità dei silenzi

Silenzio
Fisicità corporea positiva
Sopra queste vette
Opposta al rombo perdurato
Che ingiuria la città di notte

Silenzi densi
Concreti consistenti
Sopra questa quota
Materiati di nulla
Dentro i labirinti
Dissuefatti dell'udito
Ventricoli inabilitati
D'una contezza lesa

Qui tace anche il silenzio
Laggiù riprende il travagliare
Che sfigura la terra
E ricompare
Quella luce olivastra
Che ingiuria la città di giorno


Ossimori

La luce il buio
Il giorno il vespero la notte
Il silenzio le voci
Le sirene roventi
E l'arpeggio dei venti

Autunni e primavere
I laghi i monti il mare
E le piogge e il sereno
E l'amico ch'è ostile
La casetta l'ovile

Il rosso il giallo il nero
Il meticcio e l'indiano
E il lugubre mistero
Del biondissimo ariano

Essere tutto e nulla
Come nella follìa
E senza dirsi niente
Ignorarsi per via 


"le danseur"


leggero l'étoile

di quadro in quadro
volatile s'avvita al pentagramma
nel giuoco inverosimile
di picchi di spirali e mulinelli
di ebbrezze onnipotenti
dagli struggenti veli

l'aria che s'è ridesta

sfiora dormienti i sogni
nella platea rapita
e ricompone
fotogrammi di film
appesi al chiodo
nel muro dei rimpianti 

 
Why ?


la scrivania di faggio

coi quaderni aperti
vocabolari di latino e greco
a giacere attenti
al risveglio fanciullo
degli occhi di sorpresa avvinti

le mura stinte

l'abat your scrostato
la testiera di ferro e il crocifisso
la sedia ingombra
di indumenti sfusi
le scarpe che dormono sul fianco

a braccia aperte il balcone

sul mediterraneo aspetta
e le barche e le vele
ferme sull'acqua crespa
con le reti al fondale
a fecondar speranze

il liceale dorme

il sapore di miele sulla bocca
lo stupore negli occhi
ancora sublimato
nelle vette supreme
del primo amore consumato ieri

oggi solo il rimorso

d'essere vivo
se tutto questo è morto



 traguardo 
 
s'apre il tratturo
passo passo
davanti al calpestìo
dell'uomo stanco
che sale la montagna
verso il cielo
senza volgersi indietro
affrettato com'é
da quell'urgenza
che c'é ma non sospetta
le correnti si fendono alla vetta

si squarciano le nubi
e dolce si spalanca l'orizzonte
l'estrema compagna di viaggio

con la falce
anticipati i passi
è lì che aspetta

 
TRATTI E RITRATTI

se un refolo di vento
gli scompiglia i capelli
senza cura
gli scompiglia la mente
dedicata altrove

se quel soffio di brezza
reca seco un pensiero
s’egli l’insegue e lo rincorre
e in mezzo a tanta gente
incurante l’afferra

se di esso si pregna
e lo fa suo
se non ne rende conto
che a se stesso

se del mondo che corre
e gli scivola addosso
non s’avvede
è un poeta quel desso?

forse non è un poeta
ma la fotografia di me stesso

DUBBI

mente forse l’amico
nel suo cuore
se davvero egli esiste
come tale
?
mente forse la madre
nel concepire il figlio
emulsionando
maternità e piacere
?
mente forse la sera
con la sua rossa aurora
promettendo
sereni cieli a venire
?
mente forse la terra
inseminata al sole
mentre si prepara
a germinar le messi
?
mente forse la rosa
vestita di rugiada
sotto un cielo di luna
a chi la veglia avvinto
?
e mente l’ingordigia
di soldi e di potere
che ciba senza sosta
chi diserta se stesso
?
essa certo è sincera
potrebbe mai mentire?
fatta di melma infatti
sparge abiezione e lezzo
su chi ne è concupito
e se ne fregia il petto


ARRAMPICATA

la strada sdrucciola s’avvita
nell’impervia salita
la curva che soggiunge
par proprio che somigli
a quella precedente

ma la cosa è fallace
perché come la vita
il sentiero in salita
nasconde a ogni mortale
il volto disuguale
della fatalità incombente

da qui la lotta imposta
all’infimo al mezzano
all’inclito saccente
l’un contro l’altro armati
con i cuori bendati
in competizione mortale

che senso ha questa strada
se non si affronta uniti
puntellandosi insieme
per arrivare in cima?

ANELITI

sarà l'alba
a vestire le spoglie
delle vaghezze inani
nate senza natali

gli angeli dai cieli
verranno ad ammantarne
coi petali di rose
l'ascensione in sogno

 SIDERA ULTIMA THULE

gelsomini
ai tralicci
dei pensili giardini
della mente

profumi
bianchi e gialli
morbidi pensieri
di mobili farfalle
fantasie volatili
ai punti cardinali
catture terminali
celebrazioni estreme
dimore senza dimora
ripudiato il terreno.

SCADENZE

da un seme dal nulla
strepiti vagiti urla
preludio fatale
dell'immane
disegno esistenziale

la cosa le cose
di terra
di magma di coccio
tagliole cui soggiace
l’altrui soggezione

ma tutto sarà cenere
il successo la gloria
il seme
il vacuo della vita
il tutto il niente insieme

SUM ERGO NON SUM


batuffoli di neve
cadono dalla terra
verso il cielo
e il cielo si riveste
di candore

nugoli di comete
salgono dalle valli
sulla volta
e il celeste s'incanta
di bagliore

torrenti di saggezza
irrompono nell'aria
dagli umani
e varcano il confine
incontro a Dio …

ma ridestarsi
dal mondo capovolto
disperde le foschie
e il tutto appare stolto

meglio sparir nel grembo
delle tenere ubbie
dove giacere estraneo
per essere senz' essere

IL BALCONE DEL TEMPO

forse vedrò l’eucalipto
pavoneggiarsi ancora
al centro del giardino
al primo sole

questa la sua stagione
la sua ora

i refoli di brezza
ne ghermiranno gli aliti
spargendone l’intorno
dai colori in bocciolo

questo il suo tempo
questa la sua gloria

ma il tempo mio è penultimo
e le mete disperse
a commedia finita
s’esce dalla comune

la pietà delle brezze
tumulerà i furori
ormai deposti e vinti
in un limbo sperduto
che non si conosce

ORIGINE DELL'OMBRA


perché
niente veste d’azzurro
i mari il cielo
e i giorni
quando il buio
s’annida nella notte
del bimbo in fasce
acerbo
che la fine ha sfiorato
nel travaglio e il forcipe
alla sicura morte
ha sottratto?

questa la mia domanda
questo il mio cruccio

questo il retaggio cupo
che trascino
fin dai miei anni crudi
a questi ormai vetusti
e divenuti ombrosi
senza una risposta


© GIUSEPPE LENTINI